Articoli su Giovanni Papini

1930


[Attribuito] Antonio Elèna

Il Petrarca e Papini

Pubblicato in: Il Lavoro, anno XXVIII, n. 280, p. 3
Data: 25 novembre 1930




Recentemente, Giovanni Papini ha tenuto, com'è noto, una «lezione» sul Petrarca inaugurando la «settimana» petrarchesca di Arezzo. Confessiamo che appresa la notizia, ne abbiamo in gran fretta cercato il resoconto sui giornali, con una vivissima curiosità. Ricordavamo bene che Papini non era mai stato troppo tenero per Messer Francesco; e, tra le sue molte dichiarazioni in proposito, avevamo presente un articolo nella Voce del 1911 intitolato Le due tradizioni letterarie, dove concludeva un parallelo tra Dante e Petrarca così: «Fra il Dante dantesco e il Petrarca petrarchesco c'è irriducibilità totale e congenita. All'arte massiccia, compatta, diretta e sincera del primo si può contrapporre ogni volta l'arte raffinata, soave, imitativa e decorativa dell'altro. E così di tutti i loro discendenti e collaterali, fino a noialtri. L'arte maschia e l'arte femmina; l'arte di macigno e l'arte di miele; l'arte plebea e l'arte mondana. Ed io, si capisce, sto per la prima». E anche adesso a quel che dicono i giornali Papini ha iniziato il suo dire coll'affermare: «Io non sono petrarchista». Ci siamo, abbiamo pensato. Papini si è assunta la parte dell'advocatus diaboli e dirà colla sua fertile vena di paradossista, delle novità sul Petrarca: qualcosa di interessante anche se urterà i tradizionalisti delle lettere. Senonchè all'esordio non ha seguito quel che si poteva credere: almeno stando al resoconto dei giornali che ne hanno riferito, come il bolognese Avvenire d'Italia che ne riporta alcuni brani testuali. Diciamo dunque subito, che l'impressione nostra è che tradizionalista sia diventato proprio Papini: o che egli sentendo forse profilarsi sul capo l'ombra del lauro accademico. avverta il peso delle opinioni ricevute: o che abbia ritenuto che tra i suoi doveri di cattolico c'è quello di contribuire a ribattezzare, come si tenta da qualche tempo, gli scrittori italiani meno ortodossi, da Machiavelli a Carducci: il fatto è, che quasi tutto ciò che egli ha detto non differisce da quel che si può trovare in qualunque manuale pei licei. Leggiamo infatti nel discorso di Papini: «Se il Canzoniere è — come altri ha detto — un diario lirico, una autobiografia spirituale in versi, bisogna riconoscere che non vi campeggia Laura soltanto, ma vi è tutto il Petrarca, con tutte le sue passioni, le sue aspirazioni di cittadino, di artista, di sognatore, d'erudito, di amico e di cristiano. Si potrebbe sostenere, senza paura di incappare nel paradosso, che il Canzoniere, per la sua stessa contenenza, intenzione e tessitura, non è solamente il poema di Eros e di Venere, ma un poema morale, nel senso di stile e di mistica, a cui, come a quello di Dante, hanno posto mano cielo e terra».
   Non sono novità, come si vede: da notare c'è soltanto che nelle ultime righe si affaccia la nuova interpretazione cattolica del Petrarca, un'interpretazione che ha ben fragili basi. Lasciamo andare che il carattere di poema che presenta il Canzoniere si spiega facilmente pensando che sul Petrarca pesava come un incubo il modello dantesco, ed è un carattere del tutto esterno, aggiunto a cose fatte: ma se si vuol dire che l'ispirazione religiosa domina nel Canzoniere si dice cosa non sostenibile. Tutti d'accordo nell'affermare il cattolicismo del Petrarca uomo, che nessuna persona di buon senso vuol negare o attenuare. Il Croce, che all'inizio di quest'anno ha riaperto la discussione sul Petrarca con due brevi limpidi opuscoli, Sulla poesia del Petrarca e Il sonetto del vecchierello, che gli intenditori e i buongustai (tra i quali, in sede privata, è anche il Papini) hanno subito ricercato e letto, dichiara nel modo più esplicito: «Certo, in fatto di religione, egli non era nè eretico nè scettico, e molto meno incredulo». Ma i nuovi critici cattolici non si accontentano di questo: vogliono farne religiosa e cattolica anche la poesia; e allora si deve ripetere col Croce «che i tentativi, di recente rinnovati, di ricondurre il Petrarca entro la chiusa cerchia della religione e della Chiesa cattolica, se non mancano di qualche parziale verità contro gli arbitrarii ammodernamenti del suo pensiero teorico e filosofico, falliscono quando siano riferiti al carattere del Petrarca poeta.»
   Certo, ebbe torto la più superficiale critica romantica a vedere nel Petrarca un inesistente dissidio tra due diverse concezioni della vita, ma non é da credere che prendesse un abbaglio così grosso e sbagliasse fondamentalmente a definirlo il «primo uomo» e il «primo poeta moderno». Il dissidio bensì, va riportato nell'intimo del poeta, dissidio psicologico e non concettuale, contrasto di sentimenti che si armonizzano solo nella poesia; come appunto ha fatto il Croce che definisce il Petrarca primo poeta moderno, in questo senso, «che in lui pel primo si vede l'aspirazione a un'inconseguibile beatitudine nell'amore di una creatura, magicamente concepita come datrice di perfetta beatitudine; la felicità ricercata nel sentimento e nella passione, ossia nel particolare non redento nell'universale ma posto esso come l'universale; con la disperazione e la malinconia che a ciò segue o s'accompagna, col senso continuo della caducità e della morte e del disfacimento.»
   Con questo non si vuol dire che l'interpretazione crociana, che compie quella del De Sanctis, non vada discussa Si potrà osservare, ad esempio, che il profilo del Petrarca si illumina in quelle pagine di una luce troppo cruda; si potrà sostenere come ha fatto un critico acuto e profondo conoscitore del Trecento, il Sapegno, che nella poesia del Petrarca confluisce una più ricca e complessa materia sentimentale, e che essa si risolve, più che nel canto di una passione amorosa, nella contemplazione e nella ricerca dell'equilibrio tra gli stati d'animo del poeta: quantunque queste tesi ci sembrino già implicite nel saggio crociano. Altre cose si potranno dire da punti di vista diversi, ma non è possibile, se si vuol far progredire la critica petrarchesca, rifiutarla senz'altro come ha fatto il Papini negando contro il Croce l'esistenza di qualsiasi dissidio nel poeta aretino. Pena, il cadere nel generico e nel retorico come infatti è accaduto al Papini. Il quale, concludendo, ha detto: «Il Petrarca non è un uomo contradditorio e dilaniato, ma un uomo integrale. In lui c'è tutto, ci sono tutti gli amori, tutte le passioni, tutti gli entusiasmi. La sua anima non è una candela, ma una lumiera, non palo, ma foresta. Ama Roma di amore antico e l'Italia di amore imperiale: ama Laura di amore sensuale e di amor casto: ama la madre dei suoi figli d'amore terrestre e vergognoso: ama l'antichità e spera nei risorgimenti: ama lo splendor delle Corti e la pace delle solitudini: ama i libri nella sua cameretta e la malinconia dei boschi: ama il latino e il volgare: ammira insieme Cicerone e Dante, Sant'Agostino e il Boccaccio, ama il pensiero e la bellezza della forma e ama teneramente la Vergine, il Dio crocifisso, il Dio giudicante.»
   Dopodichè si apra il Canzoniere e si prenda il sonetto che comincia: «Passa la nave mia colma d'obblio», oppure quello: «Quel vago impallidir che l' dolce riso», o qualsiasi altro: e dica il lettore quale aiuto trova a intendere la poesia in quella concezione del Petrarca in cui «c'è tutto», come nella Bibbia! Era più umano, più vero, il Petrarca dei romantici con tutte le loro esagerazioni che non questo Petrarca guazzabuglio. Sì, i sentimenti sopra enunciati ci sono tutti nel Petrarca ma non coesistono in un modo così confusionario. Come si legano fra di loro? Qual'è il sentimento che compie successivamente la loro armonizzazione e in cui è il proprio della poesia petrarchesca? Eccoci tornati fatalmente al problema vero del Petrarca che il Papini non risolve. Cose più gustose ha detto il Papini abbandonandosi al suo estro sull'amore del Petrarca e sul Canzoniere in particolare, avvicinandosi molto alla definizione crociana col chiamarlo «poema della tristezza», libro della malinconia più che della passione, «il libro del pianto».
   Ma anche qui egli non ha saputo astenersi dal polemizzare senza necessità col De Sanctis, attribuendogli l'idea che «Laura è un fantasma». Cosa che non è affatto vera perchè il De Sanctis sostenne sempre la concretezza poetica di Laura. Se ne ha una testimonianza in una lettera dei tempi dell'esilio, quando egli tenne a Zurigo un corso di lezioni sul Petrarca. Dice in essa, a proposito di un professore tedesco, il Vischer: «Credeva che il Petrarca fosse il poeta platonico astratto della tradizione e di cattivo gusto, e che la forma non andasse al di là della cristallizzazione. Nell'ultima lezione (ritratto di Laura) ha toccato con mano che Laura non è un cristallo». Il Papini non aveva l'obbligo di ricordare questa lettera, ma c'è il Saggio sul Petrarca che documenta ampiamente il pensiero del De Sanctis in proposito. Se poi Papini vuol riferirsi alla realtà psicologica e pratica di Laura, questa è un'altra questione che ad ogni modo interessava assai poco al De Sanctis. Il Papini invece ci si è indugiato tralasciando i problemi critici veramente importanti. Ma dirà forse qualcuno, leggendo le nostre osservazioni: bisogna essere ben grossi d'intelletto per non capire che Papini, il quale parlava in un ambiente di cerimonia ad un pubblico d'occasione, non poteva che sfiorare i problemi critici veri e doveva restare nel generico. La sua è una conferenza brillante, non uno studio critico.
   Sta bene, rispondiamo: ma non era allora più opportuno che egli lasciasse in pace gli studiosi seri, la polemica coi quali dà tutt'altro tono alla cosa? Poichè, se queste manifestazioni papiniane vanno prese come autentiche, dobbiamo pensare e dire che dalla maturità di uno scrittore come Papini si aveva il diritto d'aspettarsi qualcosa di meglio, di più serio e originale.

E. A.


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